Mito ed epica a Roma – I sette re di Roma – parte 2

Anco Marzio

Anco Marzio

 

Alla morte di Tullo, il popolo elesse re Anco Marzio, con la ratifica del senato; egli era il nipote per parte di madre del re Numa Pompilio. Quando salì al trono, ritenne che la prima cosa da fare fosse ristabilire le pubbliche cerimonie secondo il rituale fissato dal suo avo.

In quel tempo, i Latini, con i quali era stato firmato un trattato durante il regno di Tullo, ripresero coraggio e fecero un’incursione nel territorio romano. Anco, dopo aver lasciato ai sacerdoti l’incarico di provvedere ai sacrifici, si mise in marcia con un esercito di recente formazione e conquistò di forza Politorio, città dei Latini.

Quindi, seguendo l’usanza dei suoi predecessori sul trono, trasferì a Roma l’intera popolazione. E visto che i primi Romani avevano occupato il Palatino, i Sabini il Campidoglio e la cittadella, gli Albani il monte Celio, al nuovo nucleo di stranieri fu assegnato l’Aventino.

Anco Marzio integrò nella cerchia urbana anche il Gianicolo, non tanto per bisogno di spazio, quanto piuttosto per evitare che quella roccaforte potesse un giorno cadere in mano al nemico. Si decise non solo di munirlo di fortificazioni, ma anche di metterlo in comunicazione con il resto della città mediante un ponte di legno che ne avrebbe facilitato l’accesso: fu il primo ponte costruito sul Tevere.

Il bosco di Mesia, conquistato agli abitanti di Veio, estese il dominio di Roma fino al mare e alle foci del Tevere venne fondata Ostia.

Anco regnò ventiquattro anni e non fu secondo a nessuno dei suoi predecessori per capacità specifiche e gloria acquisita in campo militare e civile.

Durante il regno di Anco, venne ad abitare a Roma Lucumone, personaggio intraprendente ed economicamente molto solido, attirato soprattutto dall’ambizione e dalla speranza di raggiungere posizioni di grande rilievo che non era riuscito a ottenere a Tarquinia (anche in quella città era uno straniero: era infatti figlio di Demarato di Corinto e gli Etruschi lo emarginavano perché era straniero e figlio di un profugo).

La moglie Tanaquil, non potendo tollerare quest’onta, mise da parte l’attaccamento innato per la patria e, pur di vedere onorato il marito, prese la decisione di emigrare da Tarquinia. Roma faceva in tutto al caso suo: in mezzo a gente nuova, dove si diventava nobili in fretta e in base ai meriti, ci sarebbe stato spazio per un uomo coraggioso e intraprendente.

Quando arrivarono nei pressi del Gianicolo, mentre erano seduti nel loro carro, un’aquila planò su di loro e portò via il cappello a Lucumone. Poi  si abbassò di nuovo e glielo rimise in testa; quindi sparì nell’alto del cielo. Si racconta che Tanaquil, essendo da buona etrusca una vera esperta di prodigi celesti, accolse con entusiasmo il presagio.

Lucumone si stabilì a Roma e cambiò nome in Lucio Tarquinio Prisco: agli occhi dei Romani faceva colpo per la sua provenienza e per la condizione economica. Tarquinio aiutava la buona sorte rendendosi gradito a chiunque potesse grazie ai suoi modi affabili, alla generosa ospitalità e alla munificenza.

Anche il re lo apprezzò per la generosità e l’efficienza, tanto che egli veniva consultato per questioni di carattere pubblico e privato, sia in pace che in guerra. Anco Marzio, dopo averlo messo alla prova in tutti i modi possibili, nel testamento lo nominò tutore dei propri figli.

Tarquinio Prisco

Tarquinio Prisco

Alla morte di Anco Marzio, Tarquinio non perdeva l’occasione di sollecitare l’anticipo dell’assemblea popolare per l’elezione del re. Quando ne fu indetta la convocazione, egli mandò i figli del defunto re ad una battuta di caccia.

Il popolo romano lo nominò re con un consenso unanime. Ed egli, una volta sul trono, nominò cento nuovi senatori (noti da lì in poi come il secondo ordine), i quali divennero incrollabili sostenitori del re.

La sua prima guerra fu contro i Latini: prese d’assalto la loro città di Apiole e, avendone riportato un bottino superiore a quanto ci si aspettava dalle prime voci, organizzò dei giochi più ricchi ed elaborati di quelli dei predecessori. Fu in questa occasione che venne scelto e delimitato lo spazio per il circo che oggi si chiama Circo Massimo[1].

Tarquinio stava anche preparandosi a dotare Roma di una cerchia muraria in pietra, quando una guerra con i Sabini si sovrappose ai suoi progetti. Sulle prime l’esito dello scontro fu incerto ed entrambe le parti ebbero parecchie perdite. Poi il nemico rientrò nell’accampamento, dando così ai Romani la possibilità di riorganizzarsi per la guerra.

Tarquinio pensava che le sue truppe avessero particolari carenze nei reparti di cavalleria e per questo, alle centurie dei Ramnensi, dei Tiziensi e dei Luceri che erano state arruolate da Romolo, egli stabilì di aggiungerne altre cui sarebbe rimasto legato il suo nome.

Una volta rinforzata questa parte dell’esercito, ci fu un secondo scontro con i Sabini in cui i Romani risultarono vincitori. Sconfitti e allo stremo delle forze, i Sabini chiesero la pace. Conclusa così la guerra, Tarquinio rientrò a Roma in trionfo. In seguito combatté con i Latini Prischi e li sottomise.

In quel periodo il palazzo reale assisté a un prodigio notevole per come si manifestò e per le conseguenze che ebbe. Mentre un bambino di nome Servio Tullio stava dormendo, furono in molti a vedergli la testa avvolta da fiamme.

Le urla concitate che gridarono al miracolo attirarono la famiglia reale. Un servitore portò dell’acqua per spegnere le fiamme, ma la regina glielo impedì e fece cessare il chiasso intimando di non toccare il bambino finché non si fosse svegliato da solo.

Appena questi aprì gli occhi, contemporaneamente le fiamme si estinsero. E allora Tanaquil, prendendo da parte il marito, gli disse: «Vedi questo bambino che stiamo tirando su in maniera così spartana? Sappi che un giorno sarà la nostra luce nei momenti più bui e il sostegno del trono durante i tempi di crisi.

Quindi vediamo di allevare con cura chi sarà motivo di lustro per lo Stato tutto e per noi stessi». Da quel momento in poi essi presero a trattarlo come un figlio e lo educarono secondo quei nobili principi che in genere portano a concepire grandi ideali.

La cosa non fu difficile perché la volontà divina era dalla sua parte. Il giovane sviluppò qualità veramente regali. Quando poi Tarquinio dovette scegliere un genero, non essendoci a Roma altri giovani che potessero reggere al confronto con lui, il re gli diede in moglie la figlia”.

LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 39

Dopo quasi trentotto anni dall’inizio del regno di Tarquinio, Servio Tullio aveva conquistato la stima totale non solo del re ma anche dei senatori e del popolo.

I due figli di Anco Marzio, tuttavia, non avevano mai perdonato al loro tutore di averli privati del regno paterno. Per tutti questi motivi ordirono un complotto ai danni del re.

Come esecutori diretti vennero scelti due pastori senza scrupoli che, armati degli attrezzi di lavoro di tutti i giorni, organizzarono una finta rissa nel vestibolo della reggia e, facendo il maggior rumore possibile, cercarono di attirare i domestici del re.

Poi, dato che entrambi volevano appellarsi al sovrano e il frastuono del loro litigio era arrivato fin dentro la reggia, Tarquinio li fece convocare. Sulle prime si misero a urlare cercando di prevaricare l’uno la voce dell’altro e smisero soltanto dopo l’intervento di un littore, che ordinò loro di esporre a turno le rispettive ragioni.

Allora uno di loro cominciò a parlare; mentre il re lo stava ascoltando con grande attenzione, l’altro sollevò una scure e lo colpì alla testa. Quindi i due si precipitarono di corsa fuori dalle porte.

Mentre quelli del séguito sorreggevano Tarquinio in fin di vita, i littori catturarono i due pastori che stavano cercando di darsela a gambe. Vi fu subito un gran trambusto di gente che accorreva per vedere cos’era successo.

Tanaquil, nel pieno della calca, ordinò di chiudere la reggia e fece uscire i testimoni oculari del delitto. Poi si procurò il necessario per suturare la ferita, come se ci fosse ancora qualche speranza residua; contemporaneamente (nel caso la speranza fosse venuta meno), prese le sue precauzioni. Fece subito chiamare Servio, gli mostrò il corpo quasi esanime del marito e quindi, prendendogli la mano, lo implorò di non lasciare impunita la morte del suocero.

[…]

Tanaquil, affacciandosi da una finestra del piano di sopra che dava sulla via Nuova (la residenza reale era infatti nei pressi del tempio di Giove Statore), arringò il popolo.

Invitò i sudditi a stare tranquilli rassicurandoli che il re, stordito da un colpo a tradimento, era già tornato in sé perché il ferro non era penetrato molto in profondità. Inoltre la ferita era stata esaminata, l’emorragia bloccata e tutto il resto sembrava a posto.

Presto, ne era sicura, lo avrebbero potuto rivedere. Nel frattempo, le sue disposizioni erano che obbedissero a Servio Tullio, il quale avrebbe amministrato la giustizia e svolto tutte le mansioni del re.

Servio avanzò con tanto di trabea e di littori, occupò la sedia del re ed emanò verdetti per alcuni casi, fingendo di dover consultare il sovrano per altri. In questo modo, per alcuni giorni, pur essendo Tarquinio ormai già morto, egli ne nascose il decesso facendosi passare per un mero sostituto, consolidando il suo potere.

Dopo un po’ di giorni la gente fu finalmente informata del luttuoso evento dai pianti che si alzavano dalla reggia. Servio, protetto da una robusta scorta, fu il primo a regnare senza il consenso popolare ma solo con l’autorizzazione del senato.

I figli di Anco, quando dopo l’arresto dei loro sicari vennero a sapere che il re era ancora vivo e che Servio godeva di così tanto favore, si ritirarono in esilio volontario”.

LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 40-41

Servio Tullio

Servio Tullio

Servio Tullio, per consolidare la posizione di autorità ottenuta, ricorse tanto a misure politiche quanto alle sua abilità diplomatiche; egli diede in moglie le figlie ai due giovani rampolli reali, Lucio e Arrunte Tarquinio. Ciò nonostante, non riuscì a infrangere l’ineluttabilità del destino: l’invidia per il suo potere creò un clima di ostilità e perfidia tra i membri della casa reale.

Particolarmente opportuna per mantenere lo stato di momentanea tranquillità fu una guerra intrapresa coi Veienti e con altre popolazioni etrusche. In questa guerra, Tullio brillò per coraggio e buona sorte. Una volta sbaragliate le ingenti forze nemiche, il re ritornò a Roma.

Servio Tullio passò alla storia per aver stabilito a Roma il sistema delle divisioni in classi con il quale si differenziavano nettamente i diversi gradi di dignità sociale e di possibilità economiche. Stabilì, cioè, il censo, con il quale i carichi fiscali in materia civile e militare non sarebbero più stati ripartiti pro capite, come in passato, ma a seconda del reddito.

Quindi divise la popolazione in classi e centurie secondo questa distribuzione basata sul censo e valida tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra.

Poiché la popolazione di Roma era aumentata molto negli ultimi anni, Servio estese il territorio della città, aggiungendo altri due colli (il Quirinale e il Viminale) e ampliando l’Esquilino; dotò Roma di un terrapieno, di un fossato e di una cerchia muraria.

Dopo aver incrementato il prestigio di Roma aumentandone la superficie, dopo aver dotato i suoi sudditi di un’organizzazione ugualmente funzionale nella sfera civile e in quella militare, Servio – non volendo sempre ricorrere alle armi per accrescere la propria potenza – decise di farlo seguendo la strada della diplomazia, in maniera tale da conferire ancora più lustro alla città.

Il tempio di Diana a Efeso era già allora parecchio rinomato e la tradizione voleva fosse stato costruito con la cooperazione delle città dell’Asia. Servio, parlando di fronte ai nobili latini, con i quali aveva in progetto di stringere relazioni di amicizia e ospitalità, disse mirabilia di una simile intesa e di una simile condivisione di culto. Tornò così spesso sull’argomento che, alla fine, Romani e Latini edificarono insieme a Roma un tempio in onore di Diana.

Servio, poiché circolava la voce che il suo regno non aveva avuto il beneplacito del popolo, si conciliò il favore della plebe distribuendo a ciascun cittadino parte delle terre tolte ai nemici e poi ebbe il coraggio di chiamare il popolo a esprimere un voto di fiducia nei suoi confronti. Fu un grande successo: mai nessun re prima di lui era stato eletto con una simile unanimità di consensi.

Il palazzo reale di Roma fu in quei tempi teatro di un tragico fatto di sangue; Lucio Tarquinio – è poco chiaro se fosse il figlio o il nipote di Tarquinio Prisco, anche se la maggior parte degli storici propende per la prima ipotesi – aveva un fratello, Arrunte Tarquinio, giovane dal carattere piuttosto mite.

Essi avevano sposato le due Tullie, figlie del re, diversissime per temperamento: una arrogante ed ambiziosa, l’altra placida e remissiva. Il caso volle che i due caratteri violenti non fossero finiti insieme: Arrunte sposò la Tullia prepotente ed altezzosa, mentre l’altra andò in sposa a Tarquinio.

La più arrogante delle figlie di Tullio non poteva darsi pace che il marito non avesse un briciolo di ambizione e di intraprendenza; ammirava invece suo cognato, da lei definito un vero uomo e un autentico rampollo di re.

L’affinità reciproca avvicinò Lucio Tarquinio e la perfida Tullia; a seguito della morte dei rispettivi coniugi, avvenute entrambe in circostanze poco chiare, i due poterono unirsi in matrimonio; Servio non si oppose alle nozze, ma non diede neppure il suo consenso.

Da quel momento in poi la vecchiaia e il regno di Tullio furono di giorno in giorno sempre più in pericolo. Tarquinio, istigato dai furori della moglie, cominciò ad andare in giro in cerca di appoggio, specialmente presso i senatori del secondo ordine; riempiva di regali i giovani.

Così, la sua posizione acquistava credibilità a tutti i livelli. Alla fine, quando gli sembrò fosse tempo di agire, fece irruzione nel foro scortato da un drappello di armati. Quindi, nello sbalordimento generale, prese posto sul trono di fronte alla curia e, tramite un araldo, fece comunicare ai senatori che si presentassero in senato al cospetto del re Tarquinio.

Egli accusò Servio di essere uno schiavo e di esser salito sul trono grazie al regalo di una donna, senza aver rispettato la tradizione (l’interregno, la convocazione dei comizi, il voto del popolo e la ratifica dei senatori).

Servio, svegliato di soprassalto da un messaggero, arrivò nel bel mezzo di questa orazione e, dall’ingresso della curia, redarguì Tarquinio. Questi allora lo afferrò all’altezza della vita, lo sollevò da terra e, trascinandolo fuori, lo scaraventò giù dalle scale. Quindi rientrò nella curia per evitare che i senatori si sparpagliassero.

La scorta e il séguito del re se la diedero a gambe. Quanto poi al re stesso, mentre quasi in fin di vita stava rientrando a palazzo senza il suo séguito abituale, fu raggiunto e assassinato dai sicari di Tarquinio, i quali lo avevano pedinato.

[…]

Tullia, arrivata in senato con il suo cocchio, per niente intimorita dalla gran massa di persone, chiamò fuori dalla curia il marito e fu la prima a conferirgli il titolo di re. Tarquinio la pregò di allontanarsi da quel trambusto pericoloso.

Allora Tullia, quando arrivò in cima alla via Cipria (dove, non molto tempo, fa c’era il santuario di Diana), ordinò di piegare verso il Clivo Urbio e di andare verso il colle Esquilino. In quel momento il cocchiere bloccò la vettura con un colpo secco di redini e, pallido come uno straccio, indicò alla padrona il cadavere di Servio abbandonato per terra.

Tradizione vuole che in quel luogo fu consumato un atto orrendo e disumano di cui la strada serba memoria nel nome (si chiama infatti via Scellerata): pare che Tullia, invasata dalle Furie vendicatrici della sorella e del marito, calpestò col cocchio il corpo del padre.

Quindi, ripartì sulla vettura che grondava sangue dopo quell’orrore commesso sul cadavere del padre e si diresse a casa dove i Penati suoi e del marito, adirati per l’inizio tragico del regno, fecero sì che esso avesse una sorte altrettanto triste”.

LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 48

Servio Tullio regnò quarantaquattro anni e anche per un successore buono e moderato sarebbe stato arduo emularne la rettitudine. E poi, ad accrescere ulteriormente i suoi meriti, c’era anche questo motivo: con lui tramontava la figura del monarca giusto e legittimo.

Tarquinio il Superbo

Tarquinio il Superbo

Ebbe quindi inizio il regno di Tarquinio, soprannominato il Superbo a causa della sua condotta: non concesse a Servio la sepoltura sostenendo che anche Romolo non l’aveva avuta e fece eliminare i senatori più importanti in quanto sospettati di aver parteggiato per il suocero.

In effetti, l’unico diritto al trono che aveva era la forza, dato che stava regnando non solo senza il consenso del popolo ma anche senza la ratifica del senato. In più si aggiungeva che, non potendo contare in alcun modo sull’aiuto dei cittadini, era costretto a salvaguardare il proprio potere con il terrore e con il peso della tirannide.

Tarquinio fu un re ingiusto con i suoi sudditi[2], ma fu un abile generale quando si trattò di combattere: in campo militare avrebbe raggiunto il livello di quanti lo avevano preceduto sul trono, se la sua degenerazione non avesse offuscato anche questo merito. Fu lui a iniziare con i Volsci una guerra destinata a durare due secoli e tolse loro con la forza Suessa Pomezia.

In séguito si impegnò in una guerra più lunga del previsto con la vicina città di Gabi, che egli riuscì a conquistare non tanto con la forza quanto soprattutto con l’astuzia: Sesto, il più giovane dei suoi tre figli, con un preciso piano, riparò in quella città lamentandosi del trattamento eccessivamente crudele riservatogli dal padre.

Sesto fu accolto e conquistò la fiducia degli abitanti di Gabi; presto, egli venne ammesso alle riunioni di governo e alle spedizioni di guerra; i soldati, vedendo che egli era sempre disposto a condividere rischi e fatiche ed era oltremodo generoso nella spartizione del bottino, gli si affezionarono.

E così, quando Sesto capì di essere abbastanza forte per affrontare qualsiasi impresa, mandò a Roma un suo uomo per chiedere al padre cosa dovesse fare, visto che a Gabi gli dèi gli avevano concesso di esser padrone incontrastato della situazione politica.

Al messaggero non venne affidata una risposta a voce. Il re, dando a vedere di essere perplesso, si spostò nel giardino del suo palazzo e l’inviato del figlio gli andò dietro. Lì, passeggiando avanti e indietro in silenzio, il re si mise a decapitare i papaveri a colpi di bacchetta. Il messaggero, stanco di fare domande senza ottenere risposte, ritornò a Gabi, convinto di non aver compiuto la missione, e riferì ciò che aveva detto e ciò che aveva visto.

Sesto, appena gli fu chiaro a cosa il padre volesse alludere con quei silenzi sibillini, eliminò i capi della città; finché un bel giorno, rimasta priva di una direzione e di risorse, Gabi si consegnò nelle mani del re di Roma senza opporre resistenza.

Dopo essersi impadronito di Gabi, Tarquinio fece pace con gli Equi e rinnovò il trattato con gli Etruschi. Quindi si rivolse a progetti di edilizia urbana.

Nel bel mezzo di queste iniziative, si assistette a un prodigio tremendo: da una colonna di legno sbucò fuori un serpente che gettò nel panico il palazzo reale. Quanto al re, la sua reazione non fu di improvviso terrore ma di ansia e preoccupazione.

Per i prodigi di carattere pubblico Tarquinio consultava soltanto gli indovini etruschi; in questo caso, spaventatissimo da un fenomeno che sembrava interessare la sua casa, stabilì che fosse interrogato l’oracolo di Delfi, il più famoso del mondo.

Non osando però affidarne a nessun altro il responso, mandò due dei suoi figli (Tito e Arrunte) in Grecia attraverso terre a quel tempo ignote e attraverso mari ancora più ignoti.

Al loro séguito si imbarcò anche Lucio Giunio Bruto, figlio di Tarquinia, sorella del re, giovane dal carattere completamente diverso da quello che dava a vedere; quando era venuto a sapere che i personaggi più in vista della città (e tra questi suo fratello) erano stati eliminati dallo zio, aveva deciso di rinunciare ad ogni atteggiamento che avrebbe potuto innervosire il re o suscitarne l’invidia e si era risolto a cercare la sicurezza nel disprezzo, visto che la giustizia offriva ormai ben poca protezione.

Così, facendo apposta l’idiota e lasciando che il re disponesse liberamente della sua persona e delle sue sostanze, non aveva rifiutato nemmeno il soprannome di Bruto, per mascherare il grande coraggio che, una volta scoccata l’ora fatale, lo avrebbe spinto a liberare il popolo romano.

I Tarquini lo portarono a Delfi, più come una spassosa macchietta che come un compagno di viaggio: sembra che il suo dono ad Apollo consistesse in un bastone d’oro racchiuso in un altro di corno (una rappresentazione simbolica del suo carattere).

Una volta arrivati a Delfi e compiuta la missione per conto del padre, i giovani furono presi dal desiderio insopprimibile di sapere a chi di loro sarebbe toccato il regno di Roma. Dal profondo dell’antro si sentì una voce pronunciare le seguenti parole: «A Roma regnerà il primo di voi che darà un bacio a sua madre». I due Tarquini imposero il segreto più assoluto sull’episodio.

Di comune accordo, tirarono a sorte chi, una volta giunti a Roma, dovesse baciare per primo la madre. Bruto pensò invece che il responso della Pizia avesse un altro significato: per questo, facendo finta di scivolare, cadde a terra e vi appoggiò le labbra, considerando la terra la madre comune di tutti i mortali”.

LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 56

Intanto a Roma fervevano i preparativi per una guerra contro i Rutuli. All’epoca la città di Ardea spiccava per le sue ricchezze; i Romani tentarono di conquistarla con un primo assalto ma fallirono, per cui essi scelsero la via dell’assedio: scavarono una trincea intorno alla città nemica.

In questa guerra di posizione e come sempre accade quando si tratta di una guerra più lunga che aspra, le licenze erano all’ordine del giorno, anche se ne beneficiavano più i capi che la truppa.

I figli del re ammazzavano il tempo spassandosela in festini e bevute. Un giorno, mentre stavano gozzovigliando nella tenda di Sesto Tarquinio (c’era anche Tarquinio Collatino, figlio di Egerio), il discorso cadde per caso sulle mogli e ciascuno prese a dire mirabilia della propria. La discussione si animò e Collatino affermò: «Giovani e forti come siamo, perché non saltiamo a cavallo e andiamo a verificare di persona la condotta delle nostre spose?».

Tutti arrivarono a Roma alle prime luci della sera e di lì proseguirono alla volta di Collazia, dove trovarono Lucrezia, la moglie di Collatino, in uno stato completamente diverso da quello delle nuore del re (sorprese a ingannare l’attesa nel pieno di un festino e in compagnia di coetanei): nonostante fosse notte fonda, Lucrezia invece era seduta nel centro dell’atrio e stava trafficando intorno alle sue lane insieme alle serve.

Fu allora che Sesto Tarquinio, provocato non solo dalla bellezza ma dalla provata castità di Lucrezia, fu preso dalla insana smania di averla a tutti i costi. Qualche giorno dopo egli, all’insaputa di Collatino, andò a Collazia e usò violenza sulla sventurata Lucrezia.

Lucrezia, affranta, mandò un messaggero al padre a Roma e uno al marito ad Ardea pregandoli di venire da lei, ciascuno con un amico fidato, e di non perdere tempo perché era successa una cosa spaventosa.

Arrivarono così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino con Lucio Giunio Bruto (questi ultimi stavano per caso rientrando a Roma quando si erano imbattuti nel messaggero inviato da Lucrezia).

La trovarono seduta nella sua stanza e immersa in una profonda tristezza. Alla vista dei congiunti, scoppiò a piangere. Il marito allora le chiese: «Tutto bene?». Lei rispose: «Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l’onore?

Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l’adutero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui».

[…]

Lucrezia poi disse: «Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!» Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre!”.

 

LIVIO, Ab Urbe Condita, Libro I, cap. 58

Bruto, mentre gli altri erano in preda allo sconforto, estrasse il coltello dalla ferita e, brandendolo ancora stillante di sangue, disse: «Su questo sangue, purissimo prima che un principe lo contaminasse, io giuro e chiamo voi a testimoni, o dèi, che da qui in poi perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo e la sua scellerata moglie e tutta la sua stirpe con il ferro e con il fuoco; non permetterò che né loro né nessun altro regni più a Roma».

Buto passò il coltello a Collatino e poi a Lucrezio e a Valerio: tutti giurarono come era stato loro richiesto; quindi trascinarono fuori di casa il cadavere di Lucrezia e lo adagiarono in pieno foro dove piano piano si accalcò la gente; tutti si scagliarono indignati contro la violenza del principe.

I giovani più coraggiosi si armarono e si offrirono volontari, seguiti subito da tutto il resto della gioventù; il resto delle truppe fece rotta su Roma agli ordini di Bruto.

L’atroce episodio suscitò a Roma non meno commozione di quanta ne avesse suscitata a Collazia e da ogni parte della città la gente si riversò nel foro.

Bruto allora pronunciò un famoso discorso: parlò della brutale libidine di Sesto Tarquinio, dello stupro infamante subito da Lucrezia, del suo commovente suicidio; ricordò anche anche l’arroganza tirannica del re e lo stato miserando della plebe; dopo aver citato l’indegna fine di Servio Tullio e l’episodio orrendo della figlia che ne calpestava il cadavere, invocò gli dèi vendicatori dei crimini contro i genitori. Egli infiammò il popolo e lo trascinò ad abbattere l’autorità del re e a esiliare Tarquinio.

Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò all’accampamento, il re partì alla volta di Roma per reprimere l’insurrezione. Ma, giunto a Roma, a Tarquinio vennero chiuse in faccia le porte e gli fu comunicata la notizia dell’esilio.

Il liberatore di Roma fu accolto con entusiasmo dagli uomini dell’accampamento, i quali poi ne cacciarono i figli del re: due di essi seguirono il padre nell’esilio a Cere, in terra etrusca. Sesto Tarquinio partì alla volta di Gabi, ma lì fu assassinato.

Lucio Tarquinio Superbo regnò venticinque anni. Il regime monarchico a Roma, dalla fondazione alla liberazione, durò duecentoquarantaquattro anni.

Attenendosi a quanto scritto nei diari di Servio Tullio, i comizi centuriati, convocati dal prefetto della città, elessero due consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.

[1]   Tarquinio Prisco fu anche il promotore di molte opere architettoniche, come quella della Cloaca Massima (e la contestuale bonifica dei terreni paludosi della città).
[2]   Si narra che Tarquinio il Superbo fece costruire numerosi templi (come il santuario di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio) con denaro pubblico; per completare tali opere, tuttavia, egli costrinse la plebe a lavori pesanti ed umilianti, come ad esempio lo scavo della Cloaca Massima: i cittadini erano costretti a lavorare sottoterra e in mezzo ai rifiuti.

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di Daniele Bello

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