Perché così va il mondo

perché così va il mondo

Dieci.

E’ reale! Io l’ho vista e non posso più smettere di guardarla.

Non è un sogno, non è allucinazione: la Moltitudine gorgogliante, la nube nera, il pozzo di oscura carne, di adipe della terra.

Nove.

E’ solo fantasia.

Sì! Benevola, innocua, fantasia. Io sono qui, posso toccarmi, so di esistere. La luna è alta nel cielo, è una sfera di roccia e polvere, non è il volto attento di un cerusico che incide il mio ventre. Le stelle sono masse di fuoco, così come detta la Scienza, e solo lontanissime; non sono occhi bramosi della mia debolezza, non attendono irrequieti, che vi sia il passaggio, che il seme germogli.

Il cielo, oh il cielo, non è un sudario, non è il bozzolo di una larva pronta a mutare in una farfalla mutilata.

Oh Dio. Vorrei Tu fossi lì fuori, anche solo a spiarmi, a guardarmi.

Otto.

I pilastri reggono. Sì, i pilastri reggono.

Il fatto che li veda contorcersi e ondeggiare è solo per la scarsa luce. Non può essere altrimenti. Alla mia sinistra tredici colonne spezzate, vecchie, forse antiche; alla mia destra due pilastri bianchi, incisi di segni, reggono il soffitto cadente di un tempio. Ricordo di averli già incontrati. Croci? Triangoli?

Continuo a vederla danzare: la Moltitudine spinge alle soglie, si accalca senza intelletto, brama di agire più di ogni altra cosa, pur non sapendo a cosa andrà incontro, senza conseguenza, come le vampe del fuoco che ardono e vivono senza vita.

Eppure c’è silenzio. Un grande silenzio prima dell’alba.

Sette.

E’ umido qui fuori. Non c’è vento, solo umidità. Acqua antica e calda come sangue della terra, le pietre sono coperte di muschio. Indovino nelle loro trame di smeraldo le storie di questo e di altri mille mondi. Questo mi fa ben sperare che sia solo un vaneggiamento.

Ecco. Vedo sorgere un popolo, un impero, un regno. Uomini che splendono per la bellezza dei loro pensieri, per l’innocenza della loro meraviglia. Poi lo vedo soccombere alla furia dei demoni. I Demoni sono invisibili, non hanno arti, non hanno bocche, non calpestano il suolo e non parlano ma devastano gli intelletti. Si nutrono del Buon Senso e della Ragione, si ingozzano della Morale e godono in banchetti dell’Incuria.

Eco. Vedo nelle trame di smeraldo una grande foresta cadere. Vedo un deserto che avanza senza sosta come un cancro di giovane età, vedo la fine nel piatto orizzonte. Altro che trombe del giudizio, altro che pietre dal cielo. Vedo l’inarrestabile armata dei demoni della corruzione, i loro succubi  festosi e ricoperti di plastica colorata, avanzare nel deserto sfoggiando abiti e cappelli, così come detta la moda.

Sei.

Una linea rosea all’orizzonte, guardo le lancette al mio polso.

Il sole sorgerà anche oggi, sì, tutto andrà per il meglio: mi troveranno, mi riporteranno nel comodo ospedale, mi chiuderanno nella stanza ovattata e si prenderanno cura di me.

Non c’è nulla da temere. Per quanto i loro volti belluini mi appaiano reali, sono evanescenti e intangibili come i sogni, come l’aria. Sono bolle di sapone nel mio cervello. Quando sarò di nuovo nella stanza imbottita, sarà dolce scoprire che qualcosa si è rotto nella mia intelligenza, ma solo nella mia.

Sono solo sogni.

Cinque.

Tossisco. E’ freddo. L’umidità delle lapidi permea le mie ossa.

Coltivo l’illusione della pazzia, la curo, la abbraccio. Penetra come un bisturi nelle volute del mio cervello e il fiotto di sangue che ne sprigiona porta con sé la parola e l’idea. Nessuna colpa per chi è folle, mi dico, nessuna colpa per chi danza sui sentieri della luna.  I loro occhi sono attenti e vigili, fissi, come una platea attonita, una parata marziale. Ormai la Moltitudine non si agita più, sa che fra poco sarà il suo momento, la sua epoca.

Suona retorico dirlo ma è tutta colpa mia.

Quattro.

Ho smesso di cercare aiuto. Chi mi crederebbe? Nessuno.

Non so nemmeno dire se la voce che echeggiava disperata tra le case fosse la mia. Mi consolo, mi illudo. La gente non avrebbe ascoltato la mia profezia nemmeno se il mio sguardo fosse saldo, o, forse, la ignora proprio perché l’umanità sa di portare dentro di sé il morbo. La Moltitudine è già dentro ognuno di noi attende solo uno spiraglio, un pertugio. Prima o poi sarebbe dovuto accadere.

No! Invento menzogne nelle quali annego il senso di colpa. Anche se tutto il resto del mondo dorme questa notte, io non potrò più farlo. Nessuno si accorgerà della differenza, nessuno capirà la superiore gravità di ciò che ho fatto. Continueranno. Donne a sfilare, uomini a tagliare, bambini a divorare, giovani a gettare. Lo sapevano già e di certo non se ne sono curati.

Tre.

La linea rosea è ora di un cremisi corposo, una piccola gobba luminosa, rossa e vivida. E’ il sole? Non so più dire cosa sia reale e cosa sia sogno, o follia, o allucinazione. La mia schiena poggia sul marmo, distesa.

La Moltitudine mi guarda dalle stelle. Come un tornado, come un terremoto, come un’onda di titaniche proporzioni, non posso negarne l’oscena bellezza. E’ orrendo, è devastante, è morte, eppure magnetizza lo sguardo, e l’uomo non può fare a meno di ammirare la Fine che si avvicina. Il cuore perde battiti, l’uomo ha consapevolezza dell’infinitamente grande, e deve ammettere, con quell’unico brandello d’anima ancora salda, di non aver mai visto nulla di più bello.

Due.

Il velluto blu del cielo sbiadisce. Come avrei voluto non aver cercato, non aver letto, non aver trovato! Come vorrei non aver ricevuto elogi per la mia curiosità, per il mio ingegno, ed essere un mediocre qualsiasi, un comune invisibile. Come sarebbe stato bello trascorrere questa notte senza la morsa nel ventre. Senza la frana nella mia anima.

Uno.

Crampi.

Dolore.

Oh Dio, oh Dèi tutti soccorretemi!

Il primo pallido sole della nuova era si staglia all’orizzonte, brucia le stelle che chiudono le loro pupille malevole, ma le chiudono nella soddisfazione, nella certezza del successo.

Oh Dio. Il mio ventre si spacca come in un parto. Io che non ho mai avuto un uomo nel mio letto, distratta dalla vita dal mio incessante cercare, ora provo il dolore di tutte le partorienti, di tutte le madri, e ciò che darò alla luce non è una benedizione, non è il pianto di un bambino.

E’ il pianto di molti.

Zero.

Mi lacera, si espande.

Sale nel cielo, plumbea e catramosa, come fumo di gomma eppure nessuno può vederla.

Non provo più nulla. Non sento più la pena o il dolore. Ù

E’ questa la mia morte?

Escono, infiniti, urlanti, dal mio ventre, dal mio seno, dalla mia bocca. Ormai nulla di me può trattenerli. Un’orda, uno sciame. E’ il loro tempo, è il loro mondo.

Una parte di me, in fondo, li ama. Li aveva cercati nei testi e nelle scritture. Li aveva visti nei microscopi, aveva risposto al loro richiamo invitandoli ad entrare, innocente come un cucciolo, giocosa come un delfino.

C’è una sordida soddisfazione nell’essere il tramite della devastazione, la Porta del Cambiamento.

Sì, io muoio ma vi lascio i miei figli.

Corroderanno le vostre anime, vi porteranno a divorare il mondo in cui vivete, a riempire di escrementi le vostre tane, a sbranarvi l’un l’altro: cannibalismo di carne, cannibalismo di denaro.

E dopo tutto? Cosa accadrà? Non lo so, non ho speranze e non mi importa averne. Se ripenso a questi ultimi dieci minuti mi viene da ridere. Quanto mi sono agitata, quanto mi sono spaventata. Nel vederli ammorbare il mondo in un istante, così invisibili, subdoli, efficienti, silenziosi, non posso che avere un moto di orgoglio.

Sì! Io li ho portati in questa terra!

Io sono stata il passaggio, il tramite dalle remote lande del male, e vi dono i miei figli dai quali non avete difesa. Essi vinceranno per me, sconfiggeranno e regneranno.

Essi renderanno eterno il mio nome: Pandora.

 

di Valentino Eugeni

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