Pieve di Trebilo

Alessandro Fantini, Trenodia di Sordello (particolare), 2005, olio su tela, 60×80 cm

“(…) le babe, non appena il bambino che avevano in braccio si metteva a piangere,
lo portavano davanti a quella pittura e gli dicevano: on bac’, jaka kaka namalevana!
E il bambino, trattenendo le lacrime, guardava con la coda dell’occhio
la pittura e si stringeva al petto di sua madre.”

Gogol − Le veglie alla masseria presso Dikan’ka − La notte prima di Natale

“Lasciami stare! T’ho detto che non ci vengo!”
Il ruzzolo di Fabiano fu accompagnato da una scarica di risa. Dietro la nuca l’erba era tagliente di guazza ghiacciata. Aldo infilò il braccio sotto il piumino saltellando sulla panchina dove Gerardo e Amedeo continuavano a trafficare con le fionde.
“Senza di te siamo dispari, non lo vedi? Come cavolo la facciamo l’offensiva del Tet?”
“Tho detto che vado a fare il muschio!”
Fabiano si trascinò carponi per qualche metro verso il ciglio della mulattiera. Aldo e Gerardo si guardarono l’un l’altro con aria annoiata. Sopra le cime delle betulle planavano fruttiere di cumulonembi, ammassati in un enorme guazzetto viola. Le virgole giallastre dei lumini fluttuavano sotto il nero triangolo dell’edicola votiva. Da lontano, con il calare dell’oscurità, erano pupille che ardevano sotto il cappuccio di un monaco. I vecchi del paese dicevano che nel fitto del sottobosco si celava una zona interdetta agli uomini, qualcosa come un monastero abbandonato, un cimitero sconsacrato, l’accesso a delle catacombe. Quando di sera passava sul marciapiede della provinciale aguzzava la vista in direzione della mulattiera che s’insinuava furtiva nel folto della boscaglia, per controllare se l’edicola fosse ancora al suo posto, o se i lumini fossero ancora accesi, o qualcuno avesse deposto un mazzo fresco di crisantemi. L’ultima volta che ci aveva visto armeggiare qualcuno doveva essere stato più di un mese fa. Forse nel giorno di Ognissanti. Una volta aveva intravisto la testa lucida di un omino in giaccone nero piegarsi sopra i lumini, come se stesse accucciandosi per bere ad una fontanella.

“Femminuccia! C’aveva proprio ragione Demetrio! Sei solo una mammoletta!”
Aldo si issò sullo schienale della panchina come se stesse montando in groppa ad un pony.
“Piscialetto!” gli fece eco Gerardo strizzandosi il cavallo dei pantaloni. Restarono per qualche secondo in silenzio. Il frullo improvviso dei corvi nascosti tra i rami li fece trasalire. Con timida rabbia Fabiano ricacciò in gola il grappolo di lacrime. L’espressione assorta di Amedeo che continuava beato a osservare le impugnature delle fionde cominciò a fiaccare la loro foga derisoria. In lontananza il clacson di un pulmino che rallentava in prossimità dell’incrocio trafisse il silenzio del crepuscolo.
“Vado a fare il muschio.”
Aldo piombò sul prato a piedi uniti, dimenando il bacino e facendo mostra della mitraglietta di plastica che aveva tenuto nascosto sotto il piumino.
“Tatatatatatatatatata” gridò, spianando l’arma contro Fabiano che, voltate le spalle, si avviava a passo dinoccolato verso l’edicola.
“Il lepricane! Ti sbranerà il lepricane!”.
Aldo e Gerardo si erano messi a quattro zampe e urlavano in coro, alternando rutti e pernacchie a boccacce che li facevano somigliare a quelle creature ridicole e spaventose aggrappate ai fianchi del portale della chiesa di Trebilo. Fabiano pensò di mettersi a correre. Al primo tentativo di accelerare il passo sentì l’aria abbattersi sul volto in una pioggia di aculei. Si fermò trafelato.
Strinse al petto la busta che minacciava di volare via. Oltrepassò l’edicola senza girarsi a guardare il volto della statuina illuminata dai lumini. Il vocio di Aldo e Gerardo si era affievolito fino a svanire del tutto. Uno stridore di freni gli arrivò ovattato alle orecchie, confondendosi con il secco frusciare delle fronde ossute.
Adesso si sentiva quasi sollevato. Tra qualche decina di metri anche quelle ultime tracce sonore della vita umana sarebbero state ingoiate dal mormorio profondo della faggeta.
Poco oltre l’edicola, circondata da una bassa bordura di tamerici, si stagliava la piccola pieve di campagna. L’anno prima quella chiesetta era stata dichiarata inagibile per il cedimento di un muro. Una mattina il portale era venuto giù come una lastra di ghiaccio scivolata via dal fianco di un iceberg. Don Genesio l’aveva salvata con la raccolta delle elemosine dei parrocchiani. Anche se i lavori erano cominciati quasi subito, per puntellare le travi del tetto che minacciava di crollare, da qualche mese i lavori andavano avanti a rilento. Il sacrestano aveva suggerito di approfittare delle impalcature che erano state disposte sullo squarcio per ricavarne un presepe in scala reale. Avevano fatto venire dalla città un gruppo di statue di legno decorate a colori vivaci. Il bue e l’asino avevano davvero le dimensioni che avrebbero avuto se fossero stati di carne, così come Giuseppe e Maria, piegati l’uno verso l’altro, colti nell’atto di rivolgere sguardi colmi di benevolenza verso la figura misteriosa che non era stata ancora piazzata al suo posto.
Si avvicinò con ansia al basso recinto di ferro che era stato improvvisato intorno al cantiere.
La paglia bagnata mandava un odore forte e pungente. Guardò con timore lo spazio vuoto che si apriva ai piedi delle due statue.
Mancava un solo giorno.
Sotto i piedi il ghiaino gemeva con il brusio delle cicale moribonde. Socchiuse gli occhi immaginando l’angolo del sottoscala di casa dove avrebbe dato vita alla sua mangiatoia.
Solo una manciata. Ne avrebbe preso quel tanto che serviva per coprire la carta di giornale stesa davanti alla capanna.
Da sempre quella che cresceva sulle radici della quercia secolare ai confini della faggeta era la più soffice e rigogliosa. Nonno Alberto gliel’aveva mostrata due anni prima, mentre gli spiegava che la preparazione del presepe, oltre a essere un rituale da tramandarsi di padre in figlio, presupponeva la conoscenza di luoghi segreti dove il muschio cresceva soffice e profumato come “riccioli di una vergine”. Aveva giurato che non sarebbe mai venuto meno al giuramento: ogni anno, la sera prima della vigilia di Natale si sarebbe recato al limitare della faggeta. Avrebbe raccolto poche manciate di muschio, infilando la mano di piatto sotto le piccole radici che lo ancoravano al legno. Avrebbe respirato la fragranza antica di quel vello che conteneva la limpida dolcezza di un passato più reale di qualsiasi epoca umana.
Alzò lo sguardo sui rami nudi che s’innervavano su per il cielo. La matassa sanguinolenta delle nuvole si anneriva fino a somigliare ad un branco di balene aerostatiche.
Si riempì i polmoni di un lungo sospiro dopo essersi guardato alle spalle.
Restava da superare il piccolo dosso che ostruiva la visuale del muro di sterpaglie. Si frugò nella giacca per accertarsi di non aver perso la lampada tascabile dopo essere stato spintonato da Aldo.
“No! Per carità! Sono rimasto solo! Non ho più nessuno! Per carità, per carità… Ci dev’essere un errore…”
“La tiriamo giù domani!”
S’irrigidì, stringendo l’estremità del faretto. Trasportate dal vento le voci si frangevano contro i tronchi, frantumandosi in bolle di echi.
Il battibecco si faceva più distinto, man mano che l’orecchio si abituava al paesaggio sonoro della boscaglia. S’inginocchiò sul pietrisco per osservare meglio le minuscole forme umane che apparivano e sparivano dietro lo schieramento dei faggi. Nonostante l’oscurità fosse quasi totale, oltre i rami più alti era ancora possibile indovinare la sagoma torreggiante di un comignolo che sputava filamenti di fumo.
“Per carità… non ho dove stare. Non fatemi questo. Avevate detto che sareste venuti a gennaio…”
“Ordinanza del comune. Il tempo è scaduto da più di un mese, lo sa perfettamente.”
“Non ho dove andare.”
“Abbiamo ricevuto disposizione di confiscarle l’immobile entro le cinque. E mancano pochi minuti.”
“Il cuore. Vi prego. Non sto bene…”
“Se vuole chiamiamo l’ambulanza.”
“No… farabutti… farabutti… non siete del comune… prima mia moglie… adesso siete venuti per me…”
“Moderi le parole. Siamo solo dei funzionari. Le diamo ancora un’ora per sloggiare.”
Il chiasso si smorzò di colpo. Un debole singhiozzare si levò improvviso e sinistro come il verso di un barbagianni. Sentì i passi dei figuri in doppiopetto farsi più incombenti. Il rantolo degli arbusti lo aggredì con violenza, facendolo rabbrividire fin dentro le ossa. Si gettò a perdifiato giù per il dosso e s’inoltrò tra i filari di sterpi. Un lembo della giacca si lacerò con un suono uniforme, come di un laccio che venisse sciolto di scatto. Si accucciò vicino alle radici muscose della quercia, nascondendo la busta sotto un risvolto della giacca. Premette la tempia sulla superficie morbida del muschio giovane e restò in ascolto. Le portiere sbatterono con dei colpi sordi, proiettili sparati su un cuscino. Sfregando sulla breccia le ruote produssero un cupo latrato. La macchina era già sparita oltre la cunetta quando si alzò di nuovo in piedi e tra le sterpaglie vide procedere a fatica l’omino imbacuccato. Lo guardò esitare, voltarsi da una parte all’altra, quasi avesse fiutato la sua presenza nell’aria come un cane da caccia.
“Una casa… una casa… una nuova casa.”
Così, balbettando a bassa voce, l’omino scomparve dietro la gobba della mulattiera. Il suo passo strascicato rimase percepibile ancora per qualche istante nell’oscurità. Poi qualcosa frusciò tra le frasche e tutto ripiombò nel silenzio.
Ormai rassicurato accese la lampada, s’incurvò sulle robuste radici della quercia e cominciò a rimuovere zolle di muschio a mani nude.
“Tatatatatatatatata”
La mitraglietta di Aldo puntava verso la recinzione di ferro. Al suo fianco, servendosi del faretto del telefonino, Amedeo illuminava lo spazio tra le due statue. Alle sue spalle Gerardo si gustava la scena tendendo l’elastico della fionda fin quasi a spezzarla. Le teste dondolavano come biglie di ossidiana nel soffuso chiarore dei lampioni della provinciale. Fabiano avanzava in silenzio verso le impalcature. Erano così presi dalla loro messinscena che nell’oscurità non avevano sentito il crepitio dei piedi mentre si nascondeva dietro la statua di Giuseppe.
“Tatatatatatatatata” urlò di nuovo Aldo, sdraiato pancia a terra, mentre simulava il rinculo della mitraglietta con delle goffe convulsioni che facevano scompisciare gli altri due, impegnati a prendere la mira con le fionde.
“L’hai visto?”
“Cosa? Che stai dicendo?”
“Guarda! Sta prendendo fuoco! Il lepricaneeeeeee!”
Il fascio di luce sprizzò sopra la spalla della statua investendoli in pieno negli occhi. Gerardo lanciò un grido e si avventò a peso morto addosso ad Amedeo. Aldo scagliò nel vuoto la mitraglietta. Non aveva ancora capito cosa li aveva attirati davanti al cantiere. Erano già lontani sul bordo della carreggiata quando la punta della scarpa colpì il giaccone.
Abbassò il cilindro della luce sulla massa scura adagiata tra le due statue.
Prima un bagliore bianco corse lungo la pelle vitrea del cranio. Poi le palpebre vibrarono, tremule e trasparenti come bucce di cipolla. Una corona di paglia e di erba secca si era modellata intorno alla testa.
L’omino aveva stampata in faccia un’espressione di letizia. Respirava profondamente, raggomitolato nel fieno con le braccia conserte, avvinte intorno al busto come in un solenne atto di consolazione. Fabiano lo riconobbe subito.
“Vecchio, appena nato e già così vecchio”.
Così, mormorando tra sè Fabiano estrasse il muschio dalla busta, lo annusò e lo depose davanti a quel fagotto umano scosso da lievi sussulti di vita.
Quando passò davanti all’edicola restò immobile, al buio, ad ammirare lo sfavillio dei lumini che alitava sul manto della vergine. Nell’oscurità le pupille del monaco gli dedicavano il loro falbo augurio.

Tratto dalla raccolta di racconti “Anno d’Inverno” di Alessandro Fantini, settembre 2012

di AFAN Alessandro Fantini

 

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