In cammino

La luce radente metteva in risalto le imperfezioni dell’intonaco bianco, incredibilmente vuoto, esattamente sopra al suo letto. Mille volte aveva osservato quel bianco immenso cercando risposte alle sue domanda di adolescente senza mai trovarvi qualcosa che andasse oltre le crepe, oltre le imperfezioni, oltre i piccoli crateri e dossi che la vita sembrava capace di promettere. Assorta così, con le mani chiuse dietro la nuca, aspettava.

Gli occhi castani oziavano sull’impalpabile sericea dimora di un ragno all’angolo del soffitto quando, il viso di sua madre fece capolino dalla porta per dire che era pronto in tavola.

Sbuffò energicamente, si levò a sedere e con fatica scavalcò pigramente la pozza di noia ai suoi piedi, attraversò la laguna di apatia, sfociando nella piatta distesa di tedio, grigia e terrea come l’Adriatico nei giorni senza vento.

La donna la guardava in tralice, dissimulando un amore profondo, le ombre proiettate dai boccoli d’argento scherzavano sulle tempie vellutate. Tutto era lieto in lei. Perfino le preoccupazioni divenivano soavi sul suo sorriso.

“Vania, che hai? È successo qualcosa?”

Senza alzare gli occhi dal piatto, la ragazza mugugnò qualcosa piegando gli angoli della bocca verso il basso. Fece spallucce. Si sforzò, ma tutto quello che riuscì a dire fu: “Niente”.

La madre cercò da sola una risposta leggendo le espressioni della figlia, che aveva poggiato mollemente il mento nel palmo della mano espirando sonoramente.

“Ho un’idea. Andiamo a vedere le stelle” propose la donna sorridendo.

Gli occhi di Vania si accesero, la schiena ebbe un fremito, ma l’apatia l’incatenava ancora.

“Ma… è pieno di lampioni, da qui non si vede niente. E domani ho il compito di matematica in prima ora”.

“So io dove andare, non faremo tardi”.

Vania finalmente sorrise, e guardò riconoscente la madre. Poi si alzò di scatto e sparecchiò in gran fretta animata da uno scopo. Non poteva chiedere di meglio, doversi immaginare le costellazioni oltre la patina opalescente delle luci cittadine era irritante come cercare di capire un discorso sormontato dal rumore di un martello pneumatico.

Sebbene il sorriso enigmatico della donna manteneva il segreto sulla meta, Vania non ne era disturbata; facevano spesso escursioni oltre la periferia per svagarsi a contatto con la natura, ma il fatto che fosse notte la eccitava.

La strada della Pace le allontanò subito dai lampioni di Chieti, svoltarono alla Madonna del Buonconsiglio per prendere la SSB1, oltrepassarono Sant’Eufemia, Pretora e, finalmente, Rapino. Vania sapeva che erano quasi arrivate. Da quando era salita in macchina aveva preso a parlare di stelle, di musica, dei suoi progetti, senza fermarsi un attimo: le gote arrossate, le ginocchia irrequiete e le mani che tormentavano senza sosta il cursore della lampo del giubbotto. Sua madre scuoteva la testa felice senza capacitarsi di quanto rapidamente un’adolescente possa passare dall’irremovibile apatia al più dinamico entusiasmo. Presero la strada sterrata sulla destra che attraversava il bosco e arrivava nei pressi della torre. La Grotta del Colle e la Torre erano i suoi luoghi del cuore, le mete preferite fin dall’infanzia.

Parcheggiarono nei pressi di una radura accanto alla torre. Quando i fari e il quadro furono spenti si trovarono dentro la notte.

“Eccoci” esclamò la madre con tono soddisfatto “che dici, da qui si vedono meglio le stelle?”

Vania, il cuore che rotolava impazzito nello sterno e le iridi accese, rispose con un afono “Grazie mamma”. Dopo tanto parlare adesso bisognava ritrovare il silenzio: era iniziata la funzione nel tempio della natura, qualsiasi voce che non fosse quella degli astri avrebbe contaminato la sacra quiete.

Faceva freddo, ma non importava. Sulle loro teste Orione sfavillava nel suo terso palazzo di velluto siderale. Betelgeuse ammiccava, ambiziosa, illudendosi inutilmente di poter vincere il confronto con Rigel, ma Vania le ammirava tutte insieme e ringraziava quel principe arciere che nelle notti di inverno la faceva sentire al sicuro.

A volte le capitava di captare echi di vite passate, filamenti di emozioni forti che un tempo avevano impregnato le rocce, gli alberi e la terra circostante, la cui energia continuava a raggiungere, inspiegabilmente inalterata, gli animi più sensibili. Lungo le mura a secco di Civita Danzica, nei pressi del castello di Rocca Calascio, di fronte ai menhir della necropoli di Fossa e perfino nella Piazza dei Templi Romani Vania aveva percepito queste emozioni fantasma, ma ogni volta era giorno. I raggi del sole, i rumori e gli schiamazzi della gente si frapponevano tra lei e i ricordi del luogo come fiocchi di ovatta che imbottivano ogni cosa. Stavolta era diverso. Qualcosa di sacro la pervadeva in un’estasi mistica dove il suo corpo diventava antenna di vite spente da tempo. Vania ascoltava il notturno della volta stellata. Ascoltava i ricordi mai avuti, e adesso così reali.

Una voragine di triste nostalgia mista ad apprensione le si aprì nel petto. Mantenendo il contatto visivo con Orione percepì chiaramente l’eco antica di un uomo costretto dall’accanimento del fato a lasciare la sua terra portando con sé quanto restava della sua famiglia: un bambino dal caschetto biondo, grandi occhi blu, la piccola bocca che aveva dimenticato l’attitudine al sorriso, e due capre pezzate.

Quante volte avevano alzato gli occhi a Orione i primi pastori che conobbero la transumanza ai piedi della Majella? E cosa pensavano? Vania non poteva fare a meno di chiederselo, mentre gli occhi sprofondavano nel baluginio di Bellatrix e le corde dell’anima vibravano di una musica sconosciuta. Inspirò profondamente, mentre un brivido le salì dalle mani gelate fino ai gomiti. Non poteva sapere, ma sentiva con l’irrazionale certezza dei sogni cosa era accaduto: un fulmine aveva ucciso la moglie e la figlioletta di quell’uomo, mentre lui e il bambino guardavano impotenti. Quando, dopo poco, una malattia decimò il gregge, la diffidenza della tribù nei loro confronti divenne ostilità aperta, così decise di cercare una nuova vita altrove. Avrebbe lasciato la Montagna Madre dirigendosi nella direzione dove il sole moriva ogni giorno, avrebbe scavalcato l’altare del cielo, il Grande Sasso, il Padre. Aveva sentito parlare bene dei Tirreni, forse li avrebbero accolti. Forse suo figlio sarebbe cresciuto al sicuro e avrebbe ritrovato il sorriso. Oltre l’abbandono adesso Vania percepiva la speranza. Una fiammella intermittente di lucciola, ma sufficiente.

“Che dici torniamo a casa?” La voce della madre la riportò al presente. Vania annuì raggiante, carica di nuova energia.

La mattina seguente Vania fissava il foglio bianco sul banco, vuoto. Sospirò poggiandosi allo schienale in segno di resa. Gli occhi si posarono sul motto fissato con il nastro adesivo sulla parete dietro la cattedra, a fianco a un crocifisso stinto di polvere e indifferenza: “Theate regia metropolis utriusque aprutinae provinciae princeps”. Tornò con la mente all’esperienza della sera precedente; Theate, la città regia, non esisteva ancora, ma la speranza esisteva già, era antica come l’essere umano. Sorrise.

di Autumna

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